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    Ho scritto un articolo su questo argomento facendo una serie di considerazioni su ciò che vivo quotidianamente svolgendo il mio lavoro di psicoterapeuta. Si rivolgono a me, infatti, tanti genitori chiedendomi di aiutarli ad “educare” i loro figli… Ma, in realtà, loro intendono “gestire” i loro figli. I due termini , educazione e gestione, pur avendo due significati diversi (EDUCAZIONE: e-ducere = tirar fuori, far emergere qualcosa che è nascosto; GESTIRE: dirigere, condurre qualcosa in modo autonomo e secondo la propria volontà = avere il controllo di una situazione), vengono confusi e, spesso, utilizzati come sinonimi.

    Come mai? I genitori si trovano sempre più in difficoltà perché spesso si rendono conto di non avere il controllo sui loro figli, quindi di non averne la gestione, ma confondendo questo aspetto con quello educativo, che è tutt’altra cosa. Infatti, esistono due “aree” che è importante imparare a riconoscere: quella che rientra nelle proprie responsabilità, e questa è l’area del controllo = gestione secondo la nostra volontà, e l’area delle responsabilità altrui, dove noi non abbiamo nessuna possibilità di controllo, per lo meno diretto, cioè non possiamo direttamente pretendere che le cose vadano secondo la nostra volontà, ma dobbiamo accettare che vi è in gioco principalmente la responsabilità-volontà altrui e il massimo che possiamo fare in quest’area è EDUCARE, ovvero far emergere qualcosa che è nascosto, ma in modo indiretto.

    Ora, dov’è il problema? Nel fatto che i genitori, pretendono di fare emergere quello che loro vorrebbero emergesse spontaneamente nei loro figli, ma che altro non è ciò che loro stessi proiettano e, forzando questo processo, non si potranno che avere risultati fallimentari. Ciò che dovrebbe emergere da un processo educativo funzionale non è ciò che i genitori desiderano per i loro figli (quindi le loro realizzazioni, magari fallite o anche riuscite, del loro passato), ma ciò che questi scoprono di desiderare, attraverso una crescita basata sull’assunzione e svolgimento delle proprie responsabilità. In questo ci deve essere il supporto genitoriale, ma non come viene spesso messo in campo, ovvero cercando di rendere il più “facile” possibile la vita dei loro figli, eliminando per quanto possibile tutti gli ostacoli che potrebbero metterli in difficoltà, ma proprio l’esatto contrario: aiutando, o meglio, guidando i loro figli a superare da soli tutte le difficoltà che la vita propone. Ed è qui che entra in gioco il concetto di educazione = far emergere ciò che è nascosto dentro ognuno di noi, che possiede tutto il necessario per poter “gestire” le varie situazioni.

    Se andiamo a scattare una fotografia oggi, da questo punto di vista, notiamo giovani sempre più fragili ed insicuri, che non si sentono in grado nemmeno di svolgere quelle attività banali che costituiscono la quotidianità: dallo svolgimento dei compiti scolastici al relazionarsi con gli altri. Infatti, complementariamente alla richiesta di aiuto dei genitori, vi è anche quella dei figli stessi che, spesso, chiedono di essere aiutati perché si rendono conto di non sentirsi in grado di affrontare anche le cose più banali. Mi sembra azzeccata la frase di Oscar Wild, che dice che “E’ con le migliori intenzioni che, il più delle volte, si ottengono gli effetti peggiori”! Niente di più vero… I genitori, con le migliore intenzioni di aiutare i loro figli, li rendono spesso incapaci di imparare da soli ciò che è necessario che imparino a fare per sviluppare una sana autostima, che altro non è che il sentirsi in grado di fare le cose. E c’è solo un modo per sviluppare l’autostima: fare le cose da soli! Il messaggio implicito che i genitori mandano ai figli quando li “aiutano” è: “ti aiuto perché non sei in grado” (es. nel fare i compiti), quindi il figlio recepisce questo messaggio, senza rendersene conto e, giorno dopo giorno, va a consolidare sempre più un senso di incapacità personale che lo porterà a sottostimarsi.

    Tornando al concetto di educazione in generale, vorrei mettere in evidenza che la sua funzione dovrebbe essere quella di guidare gli altri a scoprire ciò che piace loro fare e, allo stesso tempo, riuscire a far rispettare le proprie responsabilità, e non farlo al posto loro. Questa sembra essere la cosa più difficile: distinguere le due aree ed accettare, nel caso dei genitori, che un figlio è un individuo a sé stante, che ha il diritto di scoprire ciò che può renderlo felice, attraverso una ricerca “attiva”, cioè attraverso l’assunzione delle proprie responsabilità, che deve essere incentivata dai genitori, non ostacolata facendo le cose al posto loro o pretendendo di decidere al posto del figlio ciò che questi dovrebbe fare e i modi per farlo.

    Per la maggior parte delle persone, invece, educare significa trasmettere (= imporre) i propri valori, che a loro volta, sono stati trasmessi (= imposti) loro dai propri genitori e dalla società in cui si vive. In tutto questo c’è una sorta di “predestinazione” per ognuno di noi dal momento in cui nasciamo: è già prestabilita quella che sarà la nostra religione, l’istruzione scolastica, il formare una famiglia, il lavoro, ecc. Cosa accade spesso? Che ad un certo punto della loro vita, molte persone si sentono “depresse”, il che significa, dal mio punto di vista, semplicemente che non si sentono soddisfatte della loro vita, si rendono conto di essere state imprigionate in un ruolo sociale carico di aspettative altrui che è stato spacciato come l’unico modo “giusto” e possibile di vivere, ma che non corrisponde a ciò che avrebbero voluto fare per sentirsi davvero soddisfatti e felici. In fondo, ognuno di noi cerca questo nella vita: un buon livello di benessere. Il punto è che ognuno deve trovare da solo qual è la propria via per raggiungerlo e questa via non può essere uguale per tutti.

    Vorrei concludere con un’ultima riflessione, anche banale se vogliamo, ma forse proprio per questo molto trascurata: se vogliamo stimolare ed influenzare gli altri, piuttosto che dare consigli o fare prediche su cosa sarebbe giusto o sbagliato, la cosa più funzionale è essere noi i primi a farla. Ci sono genitori, per fare solo un esempio, che pretendono che i loro figli non fumino e fanno loro prediche con la sigaretta in mano! Parafrasando Benjamin Franklin, sostengo invece che la miglior predica sia l’esempio.

    Giovanna Rosciglione